ARPEGGI SHIATSU SULLA TASTIERA DEL PIANOFORTE Angelo Vullo
L’arte del Pianoforte (c’è già dello Yin e Yang in questa parola) ha molti dei suoi elementi fondamentali in comune con lo shiatsu.
Il primo. L’energia che proviene dall’impiego peso del corpo rilassato. Dalle spalle lungo le braccia, partendo, ovviamente dalla testa, la forza di gravità percorre il pianista sino alle dita e quindi si pone sulla tastiera.
Un altro elemento fondamentale è il rispetto per il pianoforte. Il piano è un soggetto. Proprio come uké risente delle condizioni ambientali sia nella qualità più densa della sua parte fisica (il legno respira e avverte i binomi caldo/freddo, secco/umido), sia nella qualità più eterea dei suoi sentimenti: sovente mi sono sentito accolto con entusiasmo nostalgico dal mio pianoforte, soprattutto in occasione dei miei ritorni dopo lunghe assenza. Per provarlo potrei enumerare tutte le circostanze in cui il mio piano ha compensato i deficit di memoria e la cattiva forma delle mie articolazioni attraverso il supporto del suo suono fattosi, per la circostanza, più vibrante.
Un terzo punto di contatto tra l’arte del pianoforte e lo shiatsu è la continuità. È davvero difficile che un musicista che ami la musica possa intenderla come una sequenza di battute. La sua interezza è assoluta. La battuta rende possibile la scrittura e la comprensione del pezzo, ma non ancora l’intelligenza della musica nella sua interezza. Pur non avendo studiato mai a memoria, riesco a suonare anche senza leggere la partitura: più che memoria delle singole note e delle sequenze armoniche, io (o forse le mie mani) ho memoria del movimento. Così pure nello shiatsu che, come avviene nella danza, ha una sua musica interna che unisce i singoli movimenti.
Un’ulteriore qualità che vedo, e nell’arte del piano e nello shiatsu, è ‘il molto nell’uno’, la risonanza. La conobbi in maniera chiara e distinta quando per la prima volta suonai il preludio II del primo volume del Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach. I due do del basso tenuti dalla mano sinistra (mano madre, in quel caso) ormai avevano smesso di vibrare ma le loro corde erano ancora libere proprio perché la mano sinistra teneva i due tasti abbassati. Così tutto il viaggio arpeggiato della mano destra (mano figlia della circostanza) ebbe una ripercussione su quei due do tenuti dalla sinistra. Le loro corde erano stimolate e vibravano sotto il flusso delle note con loro apparentate fatte suonare dalla destra. Scoprii che dentro un do non c’è anche molto sol, un po’ meno di mi e così via.
Ho anche colto l’importanza dell’atteggiamento mentale (Being, non doing) sulla bontà del gesto tecnico e dell’interpretazione del pezzo. L’esperienza svela al pianista che uno spirito intenso si sposa meglio con una fisicità leggera. Di fronte ad un passaggio di difficile esecuzione distaccarsi dalla muscolarità e dalle pretese virtuosistiche avvicina al rispetto del proprio limite fisico e, insieme, al rispetto del valore musicale dell’opera. Come conseguenza, questo alleggerirsi ci dota di quella levità che spinge oltre la difficoltà tecnica. Un esempio tipico: il trillo. Se si evita di contare le notine, articolarle con le dita a martello, porre gli accenti, rispettare la loro scansione (e magari ripetere tutte queste cose prima separatamente e poi insieme), forse evitiamo rigidità e ansia, il curaro che paralizza le nostre dita. In realtà è l’atteggiamento mentale che condiziona il trillo. E l’atteggiamento ha la sua sorgente nella psiche che non sempre, come volevano gli antichi greci, è una farfalla. La farfalla non pensa a come si fa per volare. Pensare un trillo è già suonarlo. Quelli che pensano a come fare per suonarlo, pensano due volte. Con il risultato che le loro mani pesano due volte. “Pensare il suono” e “pensare di dover realizzare il suono” è un conflitto che arresta. A detrimento della fluidità che genera la continuità. Ho detto ‘suono’, ma intendevo il ‘tocco’ che quel conta e per il pianista e per chi dà shiatsu.
Con lo scorrere dei dischi e degli ascolti mi convinco, benché sia del tutto privo di elementi che provino questa mia convinzione, che il tocco dei grandi pianisti avviene sempre senza mani.
Angelo Vullo (1971) vive a Capo d’Orlando, Messina. Scrittore, ha recentemente pubblicato i racconti ‘Matrjoska’ (Firenze Libri) e la silloge poetica ’59 rosse al BH’, presentata per le Edizioni Joker alla recente Fiera del libro di Torino. È inoltre autore di un breve romanzo ‘La miseria del Paradiso’ con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti. Di recente ha intrapreso lo studio dello shiatsu presso l’Istituto Europeo di Shiatsu di Firenze.
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